Un paese ingabbiato tra la speranza e l'illusione

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A leggere e a sentire le cronache delle amministrative dello scorso fine settimana sembra che l’italia si sia trasformata in un paese che si prepari ad una rivoluzione con la scheda in mano. ma così non è. Se infatti facciamo depositare la polvere successiva alla pugna elettorale e al chiacchiericcio da salotti televisivi, l’immagine dell’Italia che viene da queste ultime elezioni non è poi così diversa dalla solita. Se appunto volessimo rifarci ad una fotografia (perchè poi cosa sono, in fondo in fondo, le elezioni se non una fotografia di un attimo di un paese?), l’immagine dell’Italia è quella di una signora anziana, coi vestiti un po’ lisi, che con una mano e a parole lancia maledizioni contro chi comanda e con l’altra chiede la carità ai soliti noti. Come definire altrimenti i dati che vengo dalle urne e dalla cospicua astensione?

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Il salto del Grillo.

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Cominciamo dai cosidetti vincitori, i grillini. in realtà il risultato della compagine guidata in maniera arcigna dal comico genovese è in evidente crescita, ma in questo non è dissimile a altri esempi che hanno costellato la storia politica del nostro paese. Ed è la conferma che anche l’Italia, come tutti i paesi a più o meno lunga tradizione democratica , ha una sacca di elettorato scegliere ogni volta la nuova speranza, anche se questa  di fatto non ha avuto modo di rappresentarsi e descrivere al meglio i suoi programmi di governo per il paese, al di là di una generica contestazione dell’esistente. Dal successo dell’Uomo Qualunque subito dopo la guerra in poi, sono stati molti i predecessori di Grillo e neanche lui sembra in grado, ad oggi, di intercettare più di quel bacino del 10-15 per cento di italiani “..,zzati come delle bestie” per citare un altro cabarettista, quel Gioele Dix che ha fatto parte della sua fortuna interpretato un automobilista caratterizzato dalla gran rabbia parolaia. In più, le vicende leghiste hanno contribuito ad aumentare il bottino dei grillini beneficiati dal “parcheggio” sulle loro liste di parte del consenso movimentista padano che, in attesa che si chiariscano i contorni delle ramazzate di Maroni, ripuliscono i propri voti scollegandosi per un attimo dalle dinamiche poco chiare delle ultime vicende di casa Bossi. Ma dove il voto per Grillo poteva fare la differenza, penso ad esempio a L’Aquila e nel Mezzogiorno in generale, il consenso raramente supera il cinque per cento. Segno che dove non c’è elettorato in movimento, non si riesce a penetrare le mura del Palazzo, al di là di una presenza simbolica da oppositori. Ma se non c’è un vincitore (o, almeno, a mio avviso non è quello che riportano le cronache mainstream), di certo c’è uno sconfitto.

Il popolino delle libertà.

Le distanze prese dal fondatore nelle ultime settimane lo dovevano far presupporre, che l’aria per il partito guidato da Alfano si era fatta mefitica. E bisogna dire che il gruppo dirigente nazionale di quello che alle scorse elezioni politiche era il primo partito del paese ha fatto di tutto per confermarlo anche con le scelte strategiche di campagna elettorale. Dal” libera per tutti” in molti comuni (dove tra liste civiche e duplicati “delle libertà” queste elezioni sono state un bagno di sangue) alla scelta di candidati a sindaco esangui in molte realtà locali, il dato di fondo è la quasi sparizione del movimento fondato dal predellino una sera  d’inverno di qualche anno fa. Un movimento che, tra l’altro, sconta il peccato originale di tutte le creature politiche di Silvio Berlusconi: l’assenza di una classe dirigente locale degna di questo nome. Un partito che, liquido nelle intenzioni, si è trasformato in trasparente nei fatti. E temiamo che non basterà un altro predellino per rianimarne le sorti in prospettiva prossime politiche.

Come avrebbe detto l’ex presidente della Repubblica Cossiga, “per carità di ppattria” non citiamo neanche i risultati dell’autodefinito Terzo Polo. Ci limitiamo a dire che, visti i dati, pare quantomeno prematuro pensare ad un partito della nazione, a meno che Casini non pensi ad una nazione della dimensione di San Marino o Città del Vaticano.

Vince il disincanto conservatore

Ma allora chi ha vinto le amministrative? Nonostante il ribaltone in molti comuni, che si amplierà in occasione dei turni di ballottaggio, non il centrosinistra. O, meglio, il centrosinistra non nelle sue migliori aspirazioni, quelle riformatrici. Pare dal dato nazionale che la coalizione (anche questa a geometria variabile e poco convinta in parte delle sue componenti) sia diventata una sorta di rifugio per chi crede ancora alla politica ancient regime. E anche in quest’ottica possono essere interpretati i risultati “a sopresa”, tipo quello di Palermo o quello di Misterbianco, dove la cittadinanza ha fatto come gli elettori protagonisti occulti di un film di qualche anno fa con Eddie Murphy nei panni di un truffatore che si trasforma in politico (per poi fuggire schifato da Washington). Il protagonista di quella vicenda vince basandosi sull’omonimia con un politico deceduto. E “il popolo” si limita a rivotare “the name you know”, il nome che conosci. Ecco la primavera elettorale del 2012, non solo per ragioni climatiche, è drammaticamente simile ad un malinconico autunno. E questo non lascia presagire  nulla di buono per la politica prossima ventura.

Marco Di Salvo

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